CCOMUNICATO CONGIUNTO L’USO CIVICO NON E’ UN “NEGOZIO”

COMUNICATO STAMPA CONGIUNTO 17/7/2019
L’uso civico non è un “negozio”

Il discorso dei beni comuni è cruciale per garantire alle generazioni presenti e future non solo la tutela e conservazione di beni naturali e immobili funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali, ma anche la possibilità che intorno la cura e condivisione di questi beni si generino legami, solidarietà e comunità aperte ed eterogenee. I beni comuni sono produttori di comunità, e come tali vanno sottratti alla mercificazione e alla logica della valorizzazione intesa come profitto semplicemente monetario.

Il lavoro che a Torino, come in tante altre città, movimenti sociali, associazioni, abitanti del territorio fanno quotidianamente per sottrarre al degrado dell’abbandono e alla speculazione del cemento beni sottoutilizzati e abbandonati è il vero motore di qualunque discorso voglia essere seriamente interessato a parlare di beni comuni.

Abbiamo seguito un dialogo tra i cittadini e tra questi e l’Amministrazione, che si era mostrata interessata a svolgere su questo piano un ruolo di protagonista avanzato del dibattito nazionale.

Oggi però, siamo preoccupati della proposta di Regolamento sui beni comuni del Comune di Torino, su cui chiediamo l’apertura di un dibattito pubblico, perché finora chi ci ha lavorato ci ha negato la possibilità di studiare e partecipare alla sua scrittura, malgrado il nostro sostegno anche amministrativo alla battaglia che ha svolto in questi anni diverse realtà nella città di Torino.

Abbiamo già fatto pervenire, grazie anche al sostegno di alcuni attivisti e studiosi napoletani, alcune criticità, che in parte (almeno) sono state recepite in corner prima dell’approvazione in Giunta. Ciò però ancora non è sufficiente.

L’impianto prevede 4 ipotesi, e su tutte si deve intervenire in Consiglio comunale prima che sia troppo tardi e passi una idea privatista dei beni comuni che non corrisponde all’uso diffuso e collettivo che li caratterizza.

Art. 15 (Uso civico e collettivo urbano) prevede la trasformazione dell’uso civico in un “negozio civico” stipulato tra il comune e un soggetto giuridico delegato da una comunità di riferimento. L’individuazione dei referenti turnari compromette l’orizzontalità dei processi decisionali. Piuttosto, si dovrebbe riconoscere la realtà dei processi di autogestione aperta, individuando degli organi di autogoverno aperti e assembleari come titolari dei processi decisionali. Questa è l’unica risposta possibile contro chi vuole attaccare le gestioni comunitarie con il pretesto delle garanzie procedurali: dove – al contrario – c’è un negozio con dei referenti, la città sarà sempre chiamata a spiegare perché si è negoziato con qualcuno e non con qualcun altro.

Inoltre, deve essere chiarito che la responsabilità della comunità di riferimento non può essere equiparata a quella di custodi, o meglio non può rappresentare un facile meccanismo di deresponsabilizzazione del pubblico da alcuni oneri manutentivi e di tutela del patrimonio.

Non si può, con la scusa della sussidiarietà orizzontale, aggravare di oneri i cittadini che svolgono un’attività organizzativa gratuita al servizio della cittadinanza tutta.

Un grave errore, che falsa la realtà del processo, affermare che l’iniziativa è assunta dalla città, cioè dall’amministrazione comunale. Questa visione è il contrario del discorso dei beni comuni, che vede nella spontanea e generosa iniziativa degli abitanti del territorio (chiamati con una formula che andrebbe superata cittadini attivi o soggetti civici). La comunità di riferimento, che scrive la Carta a partire dalle proprie prassi d’uso, non nasce dal nulla, ma è una sperimentazione che l’atto dell’amministrazione riconosce. E allora bisognerebbe riconoscerla, anziché invisibilizzarla dietro l’iniziativa della città.

Ultimo passaggio distorsivo è quello di far approvare la carta di autogoverno dal consiglio comunale. La competenza regolamentare è del Consiglio, ma è già assolta con l’approvazione del presente regolamento. La carta, o meglio la dichiarazione di uso, non necessita un simile aggravio. Invece, andrebbe specificato che la ‘ratifica’ non si riferisce soltanto alla Carta così com’è, cristallizzata al momento del riconoscimento: al contrario, il regolamento deve prevedere che la comunità di riferimento abbia la possibilità di modificare le proprie regole di autogoverno, con un processo assembleare rafforzato e garantito da forme adeguate di pubblicità al fine di favorire la più ampia partecipazione alle scelte della comunità.

L’Articolo 16 – Gestione collettiva civica, è una superfetazione difficilmente comprensibile dell’uso civico. L’unica differenza sostanziale è nel potere di iniziativa, che qui viene ascritto alla comunità di riferimento (come in realtà accade sempre, invece, per l’uso civico e collettivo urbano, come elaborato nei fatti, prima che in un regolamento). Però questo non pone rimedio alle altre criticità sopra evidenziate. Anzi, prevede una ipotesi incoerente come la seguente: “La comunità di riferimento individua, secondo metodo democratico, il soggetto delegato alla stipula del negozio civico.” Una simile delega è un controsenso rispetto alla prassi di simili gestioni collettive, e non fa altro che contribuire alle accuse di mancanza di trasparenza ed imparzialità: chi sarebbero questi referenti se non dei prestanome? E che rapporto di responsabilità (solidale, con beneficio di escussione) con i “deleganti” informali?

Un ruolo di interlocuzione permanente, ove ritenuto rilevante, può avvenire semmai con organi di autogoverno specifici (un comitato dei garanti, un tavolo di lavoro et similia) ma non con soggetti individuati, cosa che porrebbe anche altri problemi di scelta, accountability ed eventuali procedure di sostituzione/integrazione di cui non v’è traccia e che renderebbero iperburocratico il processo.

A nostro avviso, si dovrebbero unire le due ipotesi riconoscendo ai cittadini il compito di scrivere, in procedure pubbliche e partecipate anche con il tavolo tecnico, una carta di autogoverno riconosciuta alla città, piuttosto che un “negozio”.

Le regole della partecipazione devono derivare dall’uso, e quindi si dovrebbe prevedere che la gestione dello spazio – in quanto aperta e includente, non offensiva e produttiva di redditività civica – è autorizzata per il tempo necessario a maturare le pratiche d’uso dello spazio stesso e quindi scrivere le Dichiarazioni. E non rappresentiamo un’esigenza soltanto nostra, bensì uno spunto emerso a livello nazionale dalle realtà della rete dei beni comuni emergenti.

Invece, il “negozio civico” – già solo nelle definizioni – deve essere riferito solo alla forma dei patti di collaborazione o alla fondazione beni comuni (art. 17).

Art. 17 Fondazione bene comune
Tutto questo, con maldestra evidenza, è per favorire l’ipotesi di trasferimento del bene a un modello di fondazione di partecipazione di diritto privato, chiamata “fondazione bene comune”. È un’ipotesi che trattiamo con rispetto e per questo non ci si può limitare a discuterne in un comunicato – siamo convinti che tante strade siano possibili – ma si deve avvertire che essa non ha nulla a che fare con l’esperimento del Teatro Valle, cui forse pure si vorrebbe richiamare. Il patrimonio della fondazione infatti non sarebbe autonomo, ma il bene immobile stesso qualificato come bene comune; di conseguenza emergerebbero sia un problema di liquidità per la manutenzione di un patrimonio – che a quel punto andrebbe solo affittato e messo a reddito monetario per finanziare le spese correnti – sia il problema della cancellazione dell’autonomia della comunità di riferimento nella gestione.
Rileviamo che tra le bozze del regolamento sia stato cancellato un punto determinante, di cui non si può fare a meno: come sarà composto e chi farà parte del CDA di tale fondazione? Si rinvia su questo delicatissimo aspetto ai singoli Statuti, aprendo un margine di discrezionalità esorbitante e rischioso, ma in realtà si nasconde una ipotesi che era stata già decisa e scritta nelle precedenti versioni, e che evidentemente per ragioni poco chiare si è deciso in questa fase di occultare: gli organi di governo dovrebbero veder rappresentati in modo paritetico “i fondatori, la comunità di riferimento ed esponenti del tessuto sociale in cui la fondazione opera”. In questo modo ci sarebbe un consiglio di amministrazione in cui siederebbero delegati degli enti locali (i fondatori), dei grandi stakeholder e potentati economici come Fondazioni bancarie, Teatri nazionali, cioè gli “esponenti del tessuto sociale della città” e solo infine, con un ruolo a quel punto meramente di tribuna, i delegati della comunità di riferimento, ledendo sia l’autonomia sia l’orizzontalità. Nulla a che fare con l’esperienza del Teatro Valle, quanto piuttosto la riedizione di una pessima proposta che venne fatta durante il momento drammatico dello sgombero in un tavolo parallelo.

Chiediamo un chiarimento sui componenti del CDA, sulle garanzie di inalienabilità del bene, su cosa accadrebbe quando un patrimonio costituito interamente dal bene immobile (come ipotizzato dai promotori), fosse incapace di affrontare qualunque spesa corrente, rischiando così di far fallire la fondazione, con grande gioia di potenziali acquirenti e speculatori.

Giuria civica. Un altro articolo modificato all’ultimo, che fortunatamente corregge la proposta iniziale. Ciò malgrado conserva una forte ambiguità. Che senso ha sdoppiare una giuria degli esperti e dei cittadini? Una simile visione tecnocratica collide con il tentativo di superare una simile dicotomia, aprendo e riconoscendo come esperti ANCHE coloro che sono espressione di una conoscenza pratica, che viene dall’associazionismo e da altre esperienze di base.
Ma cos’è in fondo un albo dei cittadini? C’è necessità di un albo per riconoscere i cittadini, o si vogliono configurare dei cittadini di serie A? E che ne è dei non cittadini, che avrebbero uguale, se non maggiore, titolo a dire la propria sulla tutela dei beni comuni?
Se invece si vuol fare appello al cittadino qualunque, quello che non ha mai partecipato a nessuna forma di esperienza sociale, ci troviamo di fronte ad un pericoloso qualunquismo, la pretesa di riconoscere una differenza morale a chi non ha mai fatto parte di esperienze collettive, che in realtà nasconde la porta agli avversari politici o a portatori di interessi privati ostili all’intero discorso dei beni comuni. Una specie di tribunale che fu aspramente criticato dallo stesso Rodotà e fu una delle ragioni di rottura dell’esperienza della seconda Commissione.

Ancora è possibile intervenire per migliorare quanto scritto ed evitare che diventi l’ennesima frattura, questa volta insanabile, tra realtà sociali di base e un piano istituzionale che deve scegliere se stare dalla parte di chi non ha parte o di chi vorrà strumentalizzare anche il discorso dei beni comuni

Torino, 16 luglio 2019

Associazione Salviamo Cavallerizza
Cavallerizza Irreale
L’Asilo Filangieri (Napoli)
Associazione Pro Natura
Associazione Salviamo il Paesaggio

questo il testo di Italia Nostra – Torino

Osservazioni di Italia Nostra-Torino su proposta di
nuovo Regolamento dei Beni Comuni

In rapporto alla bozza di nuovo Regolamento dei Beni Comuni redatto dal Comune di Torino, condividiamo in parte le osservazioni espresse dalle Entità e Associazioni…….
In particolare, condividiamo il rilievo sulla apparente indefinitezza delle rispettive responsabilità dell’amministrazione pubblica e della entità di cittadini, comunque denominata, cui il bene fosse affidato.
Così pure condividiamo l’osservazione sulla assente definizione delle conseguenze di una sopravvenuta impossibilità finanziaria od organizzativa a gestire il bene secondo le finalità inizialmente o successivamente concordate fra i promotori e il Comune.
Per parte nostra osserviamo che nel pur abbondante elenco di obiettivi e caratteristiche di un “Bene comune” non vengano chiarite le possibili declinazioni della formazione delle decisioni, se attraverso assemblee a partecipazione più o meno regolamentata o attraverso deleghe a organi esecutivi, né come avvenga il controllo da parte del Comune da un lato, e dall’insieme della cittadinanza, sull’effettiva ottemperanza agli obiettivi e ai metodi concordati col patto iniziale o con successive modifiche bilaterali.
Al riguardo osserviamo che dell’organo di controllo indicato, la “Giuria dei Beni Comuni”, non viene specificato il grado di cogenza delle decisioni, cioè se abbia chiara valenza gerarchica, e inoltre con la formulazione “chiunque intenda tutelare un bene comune può rivolgersi alla Giuria….” sembra apparire una funzione importante, prima non citata nel testo, di concorso all’instaurarsi del “negozio civico”, come se appunto l’individuo o il gruppo promotore potessero rivolgersi direttamente al Comune oppure a questa Giuria.
Altre nostre osservazioni potranno seguire quando avremo modo di esaminare più a fondo il testo.
In ogni caso ci associamo all’invito delle soprascritte entità e associazioni di sottoporre il testo a ulteriore approfondita verifica.

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