USO CIVICO

Forme di proprietà e caratteristiche della proprietà pubblica

Occorre preliminarmente mettere in evidenza che, innanzitutto, la proprietà privata non è più l’unica forma di proprietà esistente nell’ordinamento, e perciò la sola ad essere suscettibile di tutela; in secondo luogo, che a livello costituzionale, attraverso le forme di deroga come la riserva e la destinazione pubblica, viene messo in risalto il valore d’uso dei beni pubblici, distinguendoli, così, da quelli privati, caratterizzati dal loro valore di scambio; infine, si evidenzia il fatto che con la costruzione giuridica e concettuale della fattispecie della proprietà pubblica viene a evidenziarsi il legame inscindibile tra la titolarità del bene e la destinazione d’uso del medesimo, «atteso che l’appartenenza è di per sé un vincolo di destinazione”.

I beni pubblici, in quanto luogo e strumento di esercizio di numerose libertà fondamentali, costituzionalmente garantite, sovra-determinano quelli privati e permettono la costituzionalizzazione dell’intera disciplina della proprietà, consentendo di riportare alla sua funzione strumentale lo schema di appartenenza tipico del dominio privato, senza scindere il legame tra la titolarità del bene e la sua destinazione.

Il rafforzamento della nozione di proprietà costituzionalizzata. Infatti, i beni comuni, come dichiara la Commissione Rodotà, in linea con il dettato costituzionale, «esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona e sono informati al principio della salvaguardia intergenerazionale delle utilità» (Commissione Rodotà 2007). Una loro qualità è quella di essere aperti alla fruizione di tutti.

Questo significa che proprio perché un bene è comune tutti possono accedervi, ma nello stesso tempo, se tutti hanno il diritto di accedervi, tutti hanno il dovere di rispettarne l’integrità coerentemente col principio della salvaguardia intergenerazionale delle utilità.

In questa linea interpretativa – è stato ipotizzato – la partecipazione diretta dei cittadini al governo di un bene potrebbe essere un’utile categoria di individuazione e caratterizzazione dei beni comuni.

Questo sarebbe possibile in virtù di una interpretazione estensiva dell’art. 43 della Costituzione il quale prevede «a fini di utilità generale» di «riservare originariamente o trasferire (…) a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali (…)».

Questa ipotesi è qui assunta a patto che si vada oltre la prassi consueta della partecipazione, che spesso sottende una natura pattizia del rapporto tra amministrazione pubblica e cittadinanza in riferimento ai beni di proprietà pubblica.

Questo approccio riduzionistico assume come un dato inoppugnabile l’idea che i beni pubblici non siano nella piena disponibilità dei cittadini e che dunque questi come singoli o come associati debbano accordarsi per il governo degli stessi con lo Stato-persona, che in quanto proprietario ne concede (paternalisticamente o autoritati-vamente) l’utilizzo.

In questa prospettiva, di stampo privatistico e contrattualista, nulla o poco cambierebbe dal punto di vista paradigmatico perché i beni continuerebbero ad essere considerati solo dal loro profilo soggettivo (cioè in quanto appartenenti a qualcuno) e il loro utilizzo sarebbe determinato dai rapporti di forza fra il possidente (lo Stato-persona) e il nulla tenente (il popolo).

Mostreremo più avanti come la ripresa della nozione di uso diretto da parte dei cittadini di taluni beni, ci permetta invece di considerare la natura dei beni pubblici come utilitates funzionali al libero sviluppo della persona e alla tutela dei diritti, sia di quelli costituzionalmente garantiti sia di quelli di nuova generazione, riconosciuti e tutelati dalle Carte dei diritti e dai trattati internazionali.

Diritto all’uso collettivo

Obiettivi:

  • ripensare i beni pubblici come connessi ai diritti dell’intera collettività e ricomprendere la funzione straordinaria che può svolgere l’immenso patrimonio di terra, di mare, di natura e l’immenso patrimonio monumentale frutto dell’ingegno e della passione civile rendendolo disponibile alla collettività, al fine di incrementare il regime democratico e di rimuovere gli ostacoli materiali, che, «limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3 Cost.)

  • Rivendicare, in virtù della funzione sociale che suddetti beni sono costituzionalmente tenuti a svolgere, il diritto a un loro uso collettivo.

  • Rovesciare l’interpretazione proprietaria che si dà comunemente dell’enunciato costituzionale e, partendo da qui, intendere l’ente pubblico non più come un fruitore esclusivo dei beni di sua proprietà ma, piuttosto, come «un amministratore» di essi «per conto delle collettività o in ordine alla cura di de-terminati interessi pubblici»

Questa tendenza pare emergere dalla più recente dottrina e dalla giurisprudenza più aggiornata che quando si tratta di beni pubblici sostiene si debba fare riferimento allo Stato-collettività, quale ente esponenziale degli interessi della collettività.

A sostenere questa argomentazione, secondo i giudici della Corte di Cassazione, è l’idea di «una necessaria funzionalità dei beni pubblici» o meglio di una «costituzionalizzazione dei beni pubblici e di quelli privati» (sentenza 3813/2011).

La categoria degli usi.

Essi sono classificabili, secondo la dottrina giuridica, in diverse categorie:

a) diritti d’uso pubblico e usi civici, quando hanno ad oggetto beni non appartenenti alla collettività titolare del diritto di godimento e d’uso (il bene può essere di appartenenza pubblica o anche privata);

b) proprietà collettiva di diritto pubblico, quando concretizzano essi stessi una situazione di dominio, cioè quando i diritti collettivi vengono esercitati sui beni dalla stessa comunità a cui essi appartengono

c) usi collettivi dei beni pubblici destinati all’uso collettivo, quando si tratta di diritti il cui contenuto si risolve nel godimento di utilitates fornite da beni altrui.

Tuttavia, prima di procedere in una ulteriore loro specifica-zione, occorre preliminarmente chiedersi cosa siano gli usi dal punto di vista dell’ordinamento. Innanzitutto, essi, insieme alle leggi e ai regolamenti, «sono fonti del diritto» (c.c., art. 1), ma hanno efficacia solo se sono richiamati dalle leggi e dai regolamenti (c.c., art. 8).

In altre parole, sono riconosciuti solo quegli usi osservati come diritto pubblico (c.c., art. 11). In secondo luogo, ed è questa la parte più interessante, il Codice civile dispone che «le province e i comuni nonché gli enti pubblici riconosciuti come persone giuridiche godono dei diritti secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico» (c.c., art. 11). Questo significa che gli enti territoriali possono godere dei diritti sui beni di cui sono titolari direttamente secondo le leggi (amministrative) o indirettamente secondo gli usi . In quest’ultimo caso essi assumono natura di enti esponenziali, cui l’ordinamento può affidare in via residuale, cioè in mancanza di autonome iniziative organizzate dalle comunità d’abitanti stesse, la cura dei beni nell’interesse della collettività.

Assodato che gli usi rientrano nell’ambito del diritto pubblico va messo in evidenza un altro loro profilo giuridico, molto proficuo per il nostro ragionamento.

Gli usi, fatto apparentemente obliato dalla dottrina predominante, costituiscono la nozione giuridica dei diritti collettivi che, come accennato, rappresentano, insieme alla riserva e alla destinazione pubblica, una delle tre forme di deroga al diritto comune grazie alla quale è possibile costruire la nozione di proprietà pubblica.

Si tratta, lo ribadiamo, di diritti collettivi di godimento e d’uso che hanno ad oggetto beni, pubblici o privati, oppure beni che appartengono ad una comunità di abitanti, ovvero ad una collettività indifferenziata di cittadini residenti in una certa località.

Le forme di uso collettivo più conosciute tra quelle sopra indicate sono quelle del diritto d’uso pubblico e degli usi civici.

Per la prima fattispecie il caso più conosciuto, risalente al 1885, è quello della Villa Borghese a Roma su cui P. S. Mancini ha scritto pagine che ancora oggi fanno scuola. In breve: nel 1885 a Roma il principe Borghese avviò trattative per vendere l’omonima villa. Il Comune di Roma intimò al principe di tenere conto dei diritti di pubblico passaggio spettanti alla popolazione romana. Ma il principe rispose chiudendo la villa all’uso pubblico, al fine di riaffermare il suo dominio esclusivo su di essa. Il Comune ricorse davanti al Pretore. Dopo la pro-nuncia del Tribunale e della Corte di Cassazione con l’importante sentenza emessa da quest’ultima il 9 marzo del 1887 fu accolta la tesi del Comune di Roma circa il diritto d’uso pubblico da parte del popolo sulla villa Borghese.

La seconda fattispecie, risalente ad un’epoca precedente a quella in cui fu vivo il sistema del diritto romano, ha nell’uso «la sua genesi e la sua disciplina» ed ebbe un particolare carattere consuetudinario e statutario che, pur avendo origini e svolgimenti localmente differenti, continuò, in forma legislativa, fino ai giorni nostri. Solo nel 1927, con la legge n. 1766 e successivamente con la legge n. 97 del 1994, si è avuto un riordino degli usi civici che ha ricondotto questa intricata materia giuridica sotto un’unica disciplina.

Il loro con-tenuto è stato altresì arricchito e specificato da recenti sentenze della Corte Costituzionale e si è inclusa la materia degli usi civici nell’ambito del diritto pubblico – «per gli inte-ressi di carattere generale che vi si ricollegano e che lo Stato considera meritevoli di speciale tutela» (sentenza 67/1957) – e ha successivamente stabilito una stretta connessione fra usi civici e principi costituzionalmente rilevanti – come ad esempio «il valore costituzionale dell’ambiente tutelato dagli articoli 9 e 32 della costituzione (sent 156/1995) e la salvaguardia del paesaggio» (sentenza 310/2006). La Suprema corte ha anche opportunamente evidenziato che «vi è una stretta connessione fra l’interesse della collettività alla conservazione degli usi civici e il principio democratico di partecipazione alle decisioni in sede locale» (sentenza 345/1997).

Caratteristiche:

I beni oggetto di diritti d’uso collettivo si presentano come «cose aperte al godimento e all’uso collettivo» che può essere regolamentato ma non può mai essere escluso, dall’altra, questa speciale forma d’uso e godimento «è oggetto di un diritto imputato ad una determinata collettività (comunità d’abitanti)», che, nella sua generalità, viene a configurarsi come una nozione di diritto pubblico.

I diritti collettivi implicano sempre l’uso diretto del bene da parte di determinate comunità, i cui membri non potrebbero mai essere considerati meri fruitori.

Si tratta, insomma, di diritti che per essere goduti necessitano della relazione con l’altro e della partecipazione di una pluralità di soggetti.

Per salvaguardare la funzione sociale, la destinazione pubblica, nonché la salvaguardia intergenerazionale dei beni stessi, è necessario sia garantita l’attuazione di quattro principi fondamentali propri degli usi collettivi: l’accessibilità, l’inclusività, l’imparzialità e la fruibilità.

Tutti debbono poter avere accesso al bene e fruire delle sue utilità, così come la pratica dell’uso collettivo non deve essere discriminatoria e deve sempre tendere all’inclusività di tutti.

Quindi, a partire dalla pratica dell’uso e del godimento diretto di determinati beni da parte di specifiche comunità di abitanti, i beni possono estendere il loro valore d’uso all’intera collettività, soddisfacendo il principio costituzionale della sempre più attiva e concreta partecipazione di tutti alla cosa pubblica (art. 3 Cost.). È come se le comunità insistenti su un bene, utilizzandolo, liberassero tutta l’energia sociale in esso trattenuta.

In definitiva in questo modo si potrebbe evitare – come già detto – non solo l’astrattezza della generica destinazione d’uso pubblico, ma, soprattutto, la diffusa percezione che quando ha luogo l’uso e il godimento di un bene da parte di determinate comunità o associazioni di cittadini si tratti, in sostanza, quasi sempre di una concessione e mai di un diritto che spetta a tutti. Se si ammette, dunque, che la forma d’uso e godimento collettivo «è oggetto di un diritto imputato ad una determinata collettività», bisogna con questo intendere che a partire dai bisogni di specifiche comunità di abitanti prende forma concreta il diritto di tutti all’uso e godimento di determinati beni.

L’uso collettivo è, dunque, da intendersi come una determinazione che apre all’universalità o un’universalità che si fa concreto vivere.

Questo schema pratico e concettuale ha due importanti implicazioni.

Da una parte la pubblica amministrazione cambia funzione. Non interviene più in senso autoritativo ma crea le condizioni, attraverso appositi regolamenti d’uso, affinché si auto-generi un ambiente di sviluppo civico. Coerentemente con il dettame costituzionale rimuove gli ostacoli di ordine materiale che di fatto ostacolano la libera espressione della persona umana. Si fa garante, inoltre, che nell’uso collettivo dei beni si rispettino proprio i principi fondanti degli usi civici: accessibilità, inclusività, imparzialità e fruibilità.

Questo schema permetterebbe, in definitiva, di legare insieme le tre forme di deroga, costitutive della nozione della proprietà pubblica: l’appartenenza, il vincolo di destinazione e l’uso collettivo dei beni. La costituzionalizzazione della proprietà mette in un rapporto di reciproca ricorsività questi tre elementi, cosicché un bene di proprietà pubblica è per questo destinato ad una funzione pubblica che si sostanzia nella partecipazione diretta dei cittadini nel governo e nell’uso della cosa stessa e allo stesso modo l’uso diretto di un bene da parte di una comunità per le sue utilità generali può far si che quel bene sia destinato ad una determinata funzione pubblica, la quale viene garantita dall’appartenenza del bene all’intera comunità mediante il titolo di proprietà pubblica.

Si propone, dunque, un modello di uso civico capace di trasformare il pubblico riarticolandone la sovranità e trasferendola a nuove istituzioni popolari radicalmente democratiche, erodendo così il verso autoritario della discrezionalità politica ed amministrativa»

Rimettendo al centro il valore d’uso di uno spazio pubblico si va, così, a scardinare l’idea radicata nell’attuale contesto culturale e nella prassi amministrativa che per rendere fruibili dei beni pubblici occorra affidarli ad un soggetto terzo, il quale in quanto concessionario del bene è terzo rispetto alla civica amministrazione e alla comunità generale dei cittadini. Viceversa, l’idea di fondo è che il governo degli usi civici e collettivi urbani sia una pratica condivisa per cui la pubblica amministrazione è gestore del bene, cioè ne garantisce la manutenzione, e crea le condizioni perché possa prendere forma un ambiente sociale e culturale in cui le comunità di abitanti possano esercitare in modo regolamentato i loro diritti collettivi di godimento di beni che, in molti casi, loro stessi hanno rimesso a disposizione del pubblico.

Patti di collaborazione: “regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazioni per la cura e la rigenerazione dei beni comuni” approvato a Bologna nel 2014

Il modello di governo si sostanzia un regolamento quadro e una serie di “patti di collaborazione” tra amministrazione e cittadini, che individuano le modalità di utilizzo di singoli beni. Leggendo il regolamento sembra che le procedure deliberative e partecipative rappresentino uno dei metodi di selezione possibile dei beni da considerare rigenerabili, ma non il perno del modello di governo del bene stesso che, malgrado la previsione di “Gestione condivisa” (art. 13), resta incentrato su un rapporto bilaterale tra i soggetti, pubblico e privato, che stipulano il patto di condivisione (associazioni, comitati, ma anche singoli e famiglie). Sono dunque i patti il fulcro dell’impianto, che rappresenta perciò uno strumento duttile, capace di chiarire la distribuzione degli oneri di responsabilità tra i soggetti coinvolti.

Si possono però muovere alcune osservazioni. Si rileva il rischio di un abuso della sussidiarietà, che può indurre ad uno scaricabarile di oneri nei confronti dei privati cittadini. In particolare alcune amministrazioni, tra le tante che hanno adottato l’impianto, sembrano essere soprattutto tentate di liberarsi delle responsabilità connesse alla manutenzione di beni che, in quanto non facilmente collocabili sul mercato, rappresentano più un problema che una risorsa. Inoltre, nel caso in cui il patto imputi ai concessionari oneri amministrativi o costi particolarmente onerosi, ciò può significare favorire de facto accordi su misura di un certo tipo di privati che, è lecito supporre, avranno l’interesse a rientrare nell’investimento, almeno sotto forma di ritorno di immagine: una mutazione genetica già vista con l’apertura ai privati della gestione del patrimonio culturale e museale italiano a partire dalla legge Ronchey; una situazione che può sfuggire di mano in quei contesti dove il potere partitico ha forti commistioni clientelari con il cd. privato sociale.

Usi Civici

La scrittura di un regolamento di uso collettivo è stata il banco di prova, prima ancora che la soluzione, di questa strategia. Si tratta di una forma difficile da collocare, perché non sembra rientrare negli schemi tipici degli statuti di fondazioni o associazioni: i diritti di accesso sono rivolti innanzitutto verso l’esterno; le garanzie sui diritti di partecipazione sono verificati da organi di garanzia di cui fanno parte anche dipendenti pubblici; le economie generate sono reinvestite per la cura del bene senza che tali migliorie e conferimenti possano dar luogo a diritti speciali di uso o crediti nei confronti dell’ente proprietario; si sposta l’asse della responsabilità dal “chi” assume le decisioni al “come” vengono assunte; le attività proposte non sono selezionate sulla base dei contenuti (come avviene ad esempio nelle direzioni artistiche), ma sulla sostenibilità dei progetti in base a criteri di autorganizzazione e scambio di tempo. Si potrebbe configurare come la costituzione di un uso pubblico, ma speciale perché i diritti collettivi che da esso scaturiscono non si limitano al godimento di utilitates (pure estese al frui) sottraendo all’autorità amministrativa la determinazione del contenuto del potere di regolazione, a favore di una spinta all’autonormazione.

Dal punto di vista teorico sembra una forma di produzione autopoietica e riflessiva che ricorda da vicino le costituzioni civili descritte da Günther Teubner, rifiutando però l’autonomia tipica dei sistemi eterarchici, perché disincantata rispetto gli equilibri “automatici” che ciascun insieme sarebbe in grado di produrre, se non al prezzo di assecondare un assestamento conservativo dei soggetti stanziali e con più potere.

Da questi elementi si può intuire il perché gli usi civici, già nome di riferimento per una serie di istituti diversi, si siano mostrati uno strumento capace di ispirare questa forma di uso comune.

Essi rappresentano un’altra tradizione, che rispetto a quella imperniata sul soggetto individuo «contrappone una fondazione antropologica e una esperienza di vita a carattere rei centrico e comunitario». Un’anima anfibia, una parte privatistica l’altra pubblicistica (connessa alla natura di civis) e particolarmente deforme, tanto che il diritto di godimento, che l’ordinamento vuole personale, si atteggia come reale, esercitabile erga omnes».

Questa natura ancipite ha aderito perfettamente alle due gambe su cui ha camminato il percorso per il riconoscimento amministrativo: da una parte la scrittura di una dichiarazione d’uso – scritta dalla comunità di lavoratori in autogoverno dell’Asilo, attraverso tavoli pubblici e confronti con la prassi di fruizione collettiva effettivamente generate– e dall’altra quella di una delibera – scritta insieme ai rappresentanti dell’Amministrazione – che fosse capace di assumerla come corpus di regole per l’uso dello spazio.

Un uso che, com’è stato chiaramente spiegato, sarebbe proprio dei «diritti collettivi che implicano sempre l’uso diretto del bene da parte di determinate comunità, i cui membri non potrebbero mai essere considerati meri fruitori. Si tratta, insomma, di diritti che per essere goduti necessitano della relazione con l’altro e della partecipazione di una pluralità di soggetti».

La dichiarazione di uso civico sviluppata dalla comunità di riferimento così non solo viene allegata, ma i suoi articoli sugli organi di autogoverno, diventano la base di riferimento esplicitamente richiamata nella parte dispositiva e, ispirandosi agli usi civici tradizionali, costituiscono essi stessi quali “enti gestore del bene” (art. 2 u.c. dichiarazione di uso civico).

Tali delibere hanno rappresentato la base per l’estensione del modello che ha riconosciuto «quali beni comuni emergenti e percepiti dalla cittadinanza quali ambienti di sviluppo civico e come tali strategici» altri sette ex-luoghi della città, occupati negli ultimi anni.

Una nuova forma di democrazia partecipativa: ratio della gestione diretta.

Se, nel linguaggio tradizionale, amministrazione diretta indica l’ipotesi in cui la Pubblica Amministrazione possa appaltare l’esecuzione di opere o servizi a se stessa, in questo caso viene proposta per qualificare un potere ulteriore e complementare rispetto all’uso di un bene pubblico rigenerato: quello di riconoscere, nei confronti delle comunità di riferimento, il potere di proporre l’acquisizione di un corpus di regole, definite in una dichiarazione d’uso, che stabiliscano non soltanto i poteri di accesso, ma anche quelli indissolubilmente connessi alla gestione complessa di un bene, come: il potere di demandare a soggetti giuridici costituiti o da costituire la stipulazione di contratti collegati alle attività svolte, l’implementazione delle utenze, l’acquisto di beni materiali, la partecipazione a bandi pubblici per il reperimento dei fondi necessari per promuovere le attività.

Un potere di gestione definito, sia nelle dichiarazioni d’uso sia nelle delibere che le recepiscono, fondamentale come clausola di chiusura del sistema, in modo da garantire quello che il semplice uso non può garantire: cioè che ognuna di queste attività non necessiti né di essere contrattata con l’Amministrazione ogni volta – con un dispendio di tempo impensabile per tutti i soggetti coinvolti –, né che a questa siano imputati, quale unico soggetto responsabile, la totalità dei rapporti giuridici sorti, cosa che non solo rappresenterebbe un aggravamento ingiusto dei suoi compiti scoraggiandone l’adozione, ma anche un pericolo per l’autonomia progettuale della comunità di riferimento.

Qui il senso è quello di immaginare un’amministrazione diretta dei cittadini, pensata in forme nuove di responsabilizzazione, in cui il compito dell’Amministrazione sia quello di favorire i processi di riuso anche svolgendo una verifica fondamentale, cioè quella di certificare l’ammissibilità di tali dichiarazioni – in base a principi come imparzialità, fruibilità, accessibilità, democraticità e non esclusività – e predisponendo strumenti non invasivi per verificare il rispetto effettivo delle regole così sancite. Un concetto che mette al riparo dalla tentazione per cui le regole vengano proposte e definite, formalmente e sostanzialmente, dai funzionari preposti, attraverso una mera attività di consultazione nei confronti della cittadinanza interessata. Una scorciatoia che svilirebbe l’intero processo, che si può sviluppare anche perché la scrittura della dichiarazione, e di conseguenza le sue modifiche, non rappresentano la cristallizzazione di un singolo progetto, ma un sistema capace di accompagnare prassi mutevoli.

Non a caso, molti di questi spazi rigenerati sono stati definiti indecisi, cioè progettati per accogliere una moltitudine di idee e proposte impreviste che emergono attraverso l’uso e le reali esigenze venute a galla nel corso del tempo; un metodo di rigenerazione continua, la cui flessibilità si contrappone al pensiero astratto che i soggetti interessati sono costretti a formalizzare quando presentano un piano di gestione per vincere una gara o per rispondere anche tatticamente ai criteri di un bando per l’affidamento: un metodo che spesso si è risolto nella costruzione di bellissimi progetti che hanno fatto la fine di cattedrali nel deserto, inservibili perché di fatto non costruiti a partire dalla realtà sociale concreta, e anch’essa in divenire, in cui si sarebbero dovuti collocare.

Un percorso quello di una simile forma di amministrazione civica che può garantire anche una maggiore evidenza pubblica in senso sostanziale, perché non sono i soggetti gestori ad essere scelti attraverso una gare, ma le regole di gestione, scritte in forme pubbliche e partecipate, valide per tutti quelli che vogliono utilizzare gli spazi in oggetto nel corso del tempo.

Questa innovativa forma di amministrazione non si sovrappone dunque, né si sostituisce, a quella pubblica, ma la accompagna e la sostiene, attraverso distinzioni funzionali tra il ruolo degli attori pubblici e privati coinvolti.

Quando il percorso per il riconoscimento segue le vie tortuose dell’affidamento diretto – che rischia di essere particolarmente inadatto in situazioni in cui entrambi i soggetti, quello pubblico e quello privato, sono altamente politicizzati e in alcuni casi provenienti da aree contigue – esso si risolve nella creazione di associazioni create ad hoc o forme di affido equivoche a custodi o garanti.

Strumenti che coprono una autentica fictio iuris, che misura i suoi limiti col numero elevatissimo di sgomberi, dovuti a mancati pagamenti di rate, multe e abbandoni spontanei di quegli stessi edifici che si volevano rigenerati. È uno di quei casi – che si badi non riguarda soltanto gli spazi originariamente occupati – in cui il diritto, malgrado intervenga con l’obiettivo di riconoscere la realtà sociale per quella che è, finisce per tradurla sbrigativamente in qualcosa che superficialmente gli assomiglia.

Le forme di uso non esclusivo degli spazi pubblici mostrano un loro tratto di originalità, che ha un valore degno di essere tutelato dall’ordinamento non solo perché pienamente aderente ai valori costituzionali, ma anche perché particolarmente adatto a servire un sistema di innovazione sociale fondato su processi di sharing e pooling economy molto diversi da quelli tradizionali.

Usi che si sostanziano in forme molto specifiche, che ne misurano il grado di specialità, tra cui, ad esempio: i diritti di accesso agli spazi in oggetto non sono subordinati al versamento di una quota in denaro vincolante; vi sono gradazioni di responsabilità e decisionalità distribuiti su base volontaristica, attraverso metodologie che ricordano le banche del tempo o comunque forme di scambio mutualistico tra i soggetti che a rotazione fruiscono degli spazi; metodi di discussione impiantati su modelli, spesso molto complessi, di democrazia assembleare, con la delega e la votazione intese quali strumenti alternativi e spesso residuali; gli introiti, raccolti principalmente sulla base di donazioni, sono funzionalizzati al recupero dei luoghi ed allo svolgimento delle attività.

È evidente che questi principi, così sommariamente enunciati, possono rappresentare solo delle linee di tendenza, perché applicati in gradazioni differenti e perché non tutte le esperienze garantiscono né il medesimo grado di apertura né di efficienza.

Ed è precisamente qui che si colloca la sfida dell’autoregolazione civica, che va proiettata su una «logica diversa [del] processo di soggettivazione democratica, dove l’atto stesso di rivendicare la visibilità e l’autogoverno – dunque il come della partecipazione – vale il più della cosa». Ed è su questo piano che può essere siglata non più un’alleanza tra cittadini e amministrazioni, ma un nuovo ruolo dei cittadini nel loro farsi istituzione.

L’altro polo della sfida riguarda invece la Pubblica Amministrazione, che non deve assumere una funzione “pacificatoria”, come quella svolta nei patti, ma deve accompagnare la cittadinanza nel suo farsi istituzione. Si tratta insomma di accettare un cambio di paradigma difficile, perché sedimentato in una certa visione del ruolo dirigista della P.A., accettando un impianto amministrativo in grado di seguire i processi sociali e accoglierne le trasformazioni, aiutando a bonificare quelle tendenze egoistiche e di chiusura identitaria che facilmente possono prodursi, malgrado tutte le buone intenzioni.

È un discorso che incrocia quello dei beni comuni trovando echi nell’urbanistica, come ad esempio nel lavoro di James Holston, che critica l’urbanistica moderna nella sua pretesa faustiana di progettare la trasformazione del tessuto urbano esistente, mentre la pianificazione dovrebbe avere l’obiettivo di seguire quella “cittadinanza insorgente” che è capace di una continua reinvenzione tanto del sociale quanto degli spazi fisici.

Un terreno, questo, che può contrastare profondamente, come la degenerazione che sta inducendo molti funzionari pubblici ad atteggiamenti tipici di quella che si sta cominciando a chiamare “burocrazia difensiva”, cioè il diniego della firma di atti innovatiti o anche di ordinaria amministrazione suscettibili di essere censurati dalla magistratura contabile per la crescita abnorme della responsabilità per danno erariale: una situazione che sta generando immobilismo e una crescita esponenziale della burocrazia opposta alla ratio che vorrebbe garantire attraverso questa fattispecie un uso responsabile ed efficiente delle risorse pubbliche. Un aspetto su cui poggia la torsione biopolitica e normalizzatrice di normative pensate per la sicurezza dei cittadini e diventate piuttosto strumento di repressione sociale, come quella dell’agibilità degli immobili al centro di moltissimi casi di sgomberi coatti. Invece nella differenziazione funzionale tra i compiti dell’ente proprietario e quelli della comunità di riferimento individuata dall’uso civico le garanzie di accessibilità vengono assunte nella dimensione più adeguata. È questo un altro elemento qualificante del modello. Ad esempio la messa in sicurezza degli spazi (come quella del sistema anti incendio e della sicurezza dell’impianto elettrico) deve essere assunta direttamente dall’amministrazione; dove questo compito risulta troppo oneroso, come accade per larghe porzioni degli edifici abbandonati, il suo compito dovrebbe essere quello di favorire le forme di auto-recupero che si sviluppano spontaneamente proprio attraverso la gestione diretta e continuativa di un bene, sostenendo il processo, ad esempio, attraverso la stipula di speciali convenzioni assicurative, la messa a disposizione di singole figure professionali interne come tecnici e architetti, o ancora con l’approvazione di piani di ristrutturazione modulare degli immobili.

Un altro fronte di avanzamento comune tra cittadini e amministrazioni va compiuto intorno al significato del concetto di “valorizzazione dei beni pubblici”, che ad oggi è interpretato principalmente nel senso di produrre un reddito adeguato in termini di rendita o di corrispettivo da dismissioni.

Un fronte che può essere efficacemente reinterpretato riconoscendo la redditività civica come valore generato dall’uso collettivo degli immobili. Il passaggio dalla co-amministrazione all’amministrazione diretta è dunque un salto che punta il problema dell’autogoverno come fulcro dell’urgenza democratica,

Non si può sfuggire all’evidenza che però, anche così considerati, i beni comuni rischino di scivolare via in insiemi omnicomprensivi, perché sarebbe difficile proporre una forma di governance uniforme per una tipologia di beni tanto varia quanto quella dei beni connessi all’esercizio dei diritti fondamentali.

Uno dei punti su cui si è poggiata l’esperienza napoletana è una distinzione che fa riferimento ad una interpretazione analogica con quanto stabilito dall’art. 822 c.c., che distingue il demanio in necessario ed eventuale. Allo stesso modo si possono ipotizzare due tipi di beni comuni: i beni comuni necessari e quelli in senso eventuale o emergenti. I primi andrebbero considerati come quei beni – materiali, immateriali e digitali – le cui utilità sono considerate necessariamente funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali. Potrebbero essere considerati tali sia beni naturali (come l’acqua) o artificiali (come i farmaci necessari); in virtù di questo indissolubile legame con la dignità della persona il loro accesso non può essere escluso in base a criteri di disponibilità economica: per rafforzare queste garanzie alcuni aspetti relativi alla loro gestione (tra quelli più sensibili come ad esempio la distribuzione e la conservazione) dovrebbero essere decisi attraverso procedure istituzionali che coinvolgano la platea dei loro fruitori o suoi rappresentanti speciali.

Ai soggetti, singoli o collettivi, titolari dei diritti di fruizione e accesso andrebbe altresì riconosciuta una speciale legittimazione processuale per la loro tutela anche al fine di salvaguardarli per le generazioni future. I beni comuni in senso eventuale o emergenti andrebbero riconosciuti come quei beni – materiali immateriali e digitali – che, esprimendo utilità funzionali all’arricchimento del catalogo dei diritti fondamentali, si caratterizzano per una forma di gestione diretta e non esclusiva da parte delle comunità di riferimento individuabili, al fine di garantire, attraverso modelli di regolamentazione specifici, l’uso e il godimento collettivo del bene, indirizzandolo al soddisfacimento di tali diritti, nonché al libero sviluppo della persona e la salvaguardia per le generazioni future. In questo caso le tipologie dei beni potrebbero trovare negli ex-luoghi una dimensione laboratoriale ideale. Questo connubio tra forme di origine privatistica inserite in un contesto di diritto pubblico può rispecchiare il senso di costruire nuove istituzioni che affrontino le contraddizioni che le dicotomie pubblico/privato, individuale/ collettivo alle volte occultano; delle “pratiche di libertà” che devono accettare una sfida non usuale perché fuori dal rassicurante conforto dell’isolamento in arcipelaghi comunitari.

La Cavallerizza diventa Reale per i cittadini di Torino